In ogni organismo, dall’ameba all’homo sapiens, opera una legge semplice: evitare sprechi. Ogni azione inutile o ridondante riduce le chances di sopravvivenza. Nel nostro caso, l’evoluzione ha finito per convogliare questo impulso in una forma particolare di pigrizia cognitiva: appena possibile, cediamo il compito a qualcosa o qualcuno ‒ un bastone, un algoritmo, un collega ‒ purché il costo immediato si riduca. Il “delegare” nasce quindi come strategia di economia biologica, non come vizio morale.
Il primo utensile prolungò il braccio; il linguaggio prolungò la memoria; l’intelligenza artificiale oggi prolunga i modelli decisionali. A ogni passaggio, l’uomo ha consegnato all’esterno una quota di competenza e ne ha acquisita un’altra:
Utensili primitivi → motricità fine, capacità anticipatoria.
Scrittura→ astrazione simbolica, pensiero cronologico.
Macchine calcolatrici → capacità di progettazione su larga scala.
Finché la nuova competenza integra (e non sostituisce semplicemente) la precedente, il guadagno netto è evidente. Quando invece l’innesto recide il ramo da cui nasce, l’organismo culturale perde linfa vitale.
Essere presenti ‒ vigilare sull’ambiente con tutti i sensi attivi ‒ era condizione di sopravvivenza in una savana popolata da felini più veloci e mandibole più forti. È la medesima facoltà che permette oggi al chirurgo di cogliere un’anomalia millimetrica o al genitore di percepire un mutamento quasi impercettibile nel respiro del figlio. Questa forma di attenzione incarnata non si eredita come il colore degli occhi: va coltivata, allenata, rinfrescata ogni giorno.
Con l’avvento di sistemi sociali protettivi (mura, codici, assicurazioni) molte capacità interiori si sono assopite. Ne sono nate altre: l’abilità di navigare nei ruoli, di leggere segni normativi, di gestire simboli monetari. Il problema non è la sostituzione in sé, ma il modello lineare di progresso che confonde “nuovo” con “superiore”. Quando sostituire equivale ad amputare, si ottiene un organismo più snello ma meno vitale.
Come in agricoltura, la specializzazione spinta produce raccolti immediati e suoli impoveriti. L’uomo che cede la propria memoria a un cloud allena la sintesi ma perde la profondità del ricordo; chi demanda l’orientamento a un GPS rafforza l’efficienza logistica ma indebolisce la bussola interna del paesaggio; chi si affida all’IA per ogni decisione accelera i processi ma cede la stoffa stessa del giudizio critico.
Se la pigrizia è radice biologica, l’evoluzione culturale può trasformarla in virtù selettiva solo coltivando la presenza. Non si tratta di rinnegare l’automazione, ma di vegliare affinché ogni nuova protesi esterna rafforzi, anziché atrofizzare, l’organismo che la usa. L’uomo che integra anziché sostituire non è nostalgico né tecnofobo: è un giardiniere che pota per far fiorire, consapevole che la vita cresce dove la linfa continua a scorrere.
Sauro Tronconi