Fin dall’età del bronzo gli esseri umani raccontano storie sulla fine del mondo. Il motivo è evolutivo: i nostri antenati sopravvivevano grazie a un’allerta costante verso i pericoli, perciò il cervello attribuisce più peso alle narrazioni catastrofiche che a quelle rassicuranti; non sorprende che i profeti di sventura continuino a prosperare. Le stesse dinamiche che sostengono religioni, nazioni e denaro — ordini immaginari capaci di coordinare milioni di persone — funzionano anche con le profezie apocalittiche, solo in chiave negativa.
Tre bias cognitivi le rendono particolarmente contagiose: il negativity bias (le cattive notizie restano impresse più delle buone), l’availability heuristic (disastri vividi e memorabili sono richiamati alla mente con facilità) e il confirmation bias (chi teme l’apocalisse seleziona solo gli indizi che la confermano). Quando una simile narrazione è condivisa, diventa performativa: se crediamo che la crisi climatica sia ormai irreversibile investiamo di meno in soluzioni; se vediamo la guerra come inevitabile eleggiamo leader che la rendono plausibile. Il futuro quindi non è scritto, ma si modella nel presente attraverso le storie che scegliamo di prendere sul serio.
I dati dicono che oggi sono attivi circa 56 conflitti armati. Il rischio di una guerra totale tra super‑potenze è diminuito rispetto al XX secolo grazie a deterrenza nucleare e interdipendenza economica, ma i conflitti regionali restano numerosi. E proprio lì trovano terreno fertile i profeti di sventura “istituzionalizzati”: capi di stato che parlano di emergenza permanente — migratoria, morale, geopolitica — per giustificare politiche autoritarie. È la politica del panico: spostare il dibattito dalle decisioni razionali alle emozioni primarie dell’elettore.
L’antidoto non è un ottimismo ingenuo, bensì una speranza critica. Occorre riconoscere i rischi reali (crisi ecologica, armi autonome, pandemie), tradurli in progetti concreti (decarbonizzazione rapida, trattati vincolanti sul controllo dell’IA militare, rafforzamento dell’OMS) e coinvolgere l’opinione pubblica mostrando che le soluzioni generano benefici misurabili. Questo richiede un clima informativo equilibrato, capace di ridurre la quota di narrazione catastrofista senza scadere nel negazionismo, e di far emergere la consapevolezza che “loro” e “noi” condividiamo catene di fornitura, virus e atmosfera. Servono infine istituzioni sovranazionali con poteri reali: l’ONU, per contare, deve valere quanto la narrazione collettiva che sostiene il suo peso.
In ultima analisi, profeti di bene e profeti di sventura competono per lo stesso spazio mentale. La domanda non è se il futuro sarà radioso o catastrofico, ma quale racconto decideremo di incarnare. Ogni scelta quotidiana — dal voto al carrello della spesa — è una micro‑profezia che può sommarsi alle statistiche delle guerre oppure alla loro riduzione. I fatti sono che si deve lavorare per la pace; i fatti sono che l’unico strumento per farlo è il potere delle storie che uniscono anziché dividere.
Sauro Tronconi