Ogni atto di attenzione nasce da un richiamo emotivo: qualcosa vibra dentro di noi e ci strappa dall’indistinto. Quando quel richiamo viene riconosciuto come “mio”, l’attenzione diventa coscienza di sé; la coscienza, a sua volta, può trasformarsi in volontà, cioè nella capacità di orientare e mantenere lo sguardo interiore su ciò che si ritiene significativo. Senza questo processo, la vita psichica resta un flusso frammentario di stimoli che ci attraversano senza essere integrati.
L’industria dell’intrattenimento – in particolare la filmografia permeata di effetti speciali – ha innalzato costantemente la soglia dello spettacolare. Scene catastrofiche, suoni esplosivi, colori saturi: ogni pellicola deve superare la precedente per catturare un pubblico assuefatto. Tale inflazione produce due conseguenze. Primo, la ripetizione: l’“evento enorme” diventa comune, perdendo la sua funzione di sorpresa. Secondo, l’esagerazione: per risultare ancora straordinario, lo spettacolo deve gonfiarsi oltre misura, finché l’eccesso diventa la nuova norma.
Sottoposto a un flusso continuo di immagini iperboliche, l’individuo rischia di non accorgersi della mutazione che avviene dentro di sé: la soglia emotiva si alza, la realtà quotidiana appare sbiadita. L’esperienza elementare – il rumore della pioggia, l’odore del pane, lo sguardo di chi ci parla – sembra priva di peso specifico. Quel che un tempo bastava a risvegliare meraviglia ora passa inosservato, come un sottofondo privo di interesse.
Non tutti reagiscono nello stesso modo. Chi possiede strutture psichiche più stabili può conservare senso critico e radicamento; chi è più fragile, invece, può esserne travolto. Nei casi estremi, la dissociazione fra realtà ed emozione degenera in azioni distruttive: la violenza diventa un tentativo paradossale di “sentire di nuovo qualcosa”. È l’urlo di chi, emotivamente anestetizzato, cerca scosse sempre più potenti per non sentirsi morto dentro.
Qui emerge il nucleo della dipendenza: l’emozione non è più legata agli eventi, ma alla loro intensità apparente. Come un tossicomane in astinenza, il soggetto avverte un vuoto quando la vita reale non offre stimoli abbastanza “luminosi”.
Il Sé, non più centro vivente dell’esperienza, si riduce a spettatore di un flusso che gli è esterno. L’attenzione non è scelta ma cattura; la coscienza non è progettualità ma reazione; la volontà, infine, si atrofizza. A questo punto l’uomo smette di “avere” emozioni e diventa “posseduto” da esse, espropriato della capacità di sentirle come proprie.
Recuperare l’originaria connessione tra emozione e realtà non è nostalgia del passato, ma atto di responsabilità verso se stessi e la collettività. Una comunità di individui capaci di sentire il valore del quotidiano è meno manipolabile, più incline alla solidarietà, più resistente alle lusinghe dell’eccesso. In questa prospettiva, l’attenzione non è solo un meccanismo psicologico: è un bene comune, una risorsa culturale da proteggere.
Viviamo in un’epoca che ha sostituito il miracolo dell’ordinario con la tirannia dello straordinario permanente. Reimparare a vedere l’erba che cresce, a percepire il silenzio, a battere il tempo con il proprio respiro significa tornare proprietari del nostro sguardo. Solo allora l’attenzione tornerà a essere coscienza, e la volontà potrà di nuovo scegliere – non il clamore dell’ennesima esplosione digitale, ma la sobria immensità di ciò che è già qui.
Sauro Tronconi