(o del perché l’uomo postmoderno ha ancora il cuore nel Neolitico)
Amare, oggi, è diventato una forma di artigianato in disuso, come intagliare il legno o scrivere a mano con una stilografica. Si confonde con l’affetto domestico, con l’attrazione epidermica, con la mutua convenienza assicurativa di una coppia che divide l’utenza della luce. Ma l’amore – quello vero, quello con l’iniziale maiuscola che non si può digitare senza un minimo di vertigine interiore – è una tecnologia spirituale avanzatissima, e come ogni tecnologia avanzata è indistinguibile dalla magia… o dalla follia.
Siamo ancora lì, però. Sotto il pergolato dell’età della pietra, a difendere il nostro orticello affettivo con clave emotive, a innamorarci solo di chi ci somiglia abbastanza da non metterci in crisi, abbastanza diverso da eccitarci un po’, e sufficientemente disponibile da non complicarci troppo l’agenda. Una neolatria del Neolitico, potremmo dire. E così, il passo evolutivo che ci dovrebbe condurre oltre il guado della necessità – verso l’amore come atto di libertà e conoscenza – rimane impantanato nel fango della biologia e dell’abitudine.
Chi ama davvero oggi? Non chi *si sente* innamorato, ma chi *sceglie* di amare. Ecco la grande rivoluzione copernicana dell’eros: spostare il fulcro dall’istinto al discernimento. L’amore come scelta, come salto quantico dell’anima, come responsabilità e non come sgravio ormonale. Ma questo richiede strumenti che non si trovano al supermercato: richiede una certa consuetudine con il dolore, una raffinata capacità di vedere l’altro anche quando è scomodo, e soprattutto una comprensione del tempo che si abita – il nostro, ahi noi, essendo afflitto da una bulimia di stimoli e una anoressia di significati.
E mentre Gesù (quel tipo geniale, a tratti rivoluzionario, noto per frasi come “ama il tuo nemico” e “beati i puri di cuore”) parlava di un amore così radicale da sovvertire le gerarchie umane, i suoi seguaci, duemila anni dopo, riescono a litigare con più furore per una messa in latino che per la fame nel mondo. L’amore di cui parlava? Roba da centri di alta formazione spirituale, mica da comitive parrocchiali. Un amore che non ha bisogno di identificarsi in un’ideologia o in un patriarcato benedetto: un amore che rompe i recinti del clan, della razza, del genere, della nazione – e, proprio per questo, è ancora percepito come pericoloso.
Così il cristiano medio di oggi – per non parlare del politico – più che il Buon Samaritano, ricorda certi gretti capotribù dell’età del bronzo: armati, sospettosi, incapaci di perdono. Dormienti, sì, ma con lo smartphone sul comodino, pronti a postare versi di San Paolo su Facebook mentre tramano la prossima vendetta col sorriso di Giuda.
Dunque, usciamo dal Neolitico. Smettiamola di confondere l’amore con la conquista, la fedeltà con la proprietà, la passione con l’abbonamento condiviso a Netflix. L’amore non è un parcheggio dell’anima, ma un viaggio con biglietto di sola andata verso il mistero dell’altro. E se ci si perde, meglio: solo chi si perde può amare davvero.
Sauro Tronconi